mercoledì 18 aprile 2012

CASS., 23.3.2012 n°11545 Professionisti -Reati contro la p.a. – Esercizio abusivo professione -Dottore commercialista che esercita senza l’iscrizione all’albo – Punibilità prima e dopo il 2005


L'ultimo pronunciamento della Cassazione (sezione unite penali - n. 11545/12) in materia di consulenza fiscale fa chiarezza sulla competenza. Solo gli iscritti agli Ordini professionali possono esercitare , mentre rimane esclusa tale possibilità per chi non è professionista ordinistico. Pubblichiamo il parere n. 15/2012 della Fondazione Studi in merito alla citata sentenza della Suprema Corte nella quale si evidenzia che, in materia contabile e fiscale, non esistono riserve esclusive e l'esercizio di dette attività non integrano il reato di cui all'art. 348 c.p. purché siano svolte con chiare indicazioni dei titoli professionali posseduti.
La stessa sentenza cita i Consulenti del Lavoro come soggetti ai quali è stato riconosciuto il diritto al compenso per le attività di consulenza e valutazione in materia aziendale, ritenute non riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti e ragionieri e periti commerciali, per le attività di tenuta delle scritture contabili dell'impresa, redazione dei modelli Iva o per la dichiarazione dei redditi, effettuazione dei conteggi ai fini Irap o Ici, richiesta di certificati o di presentazione di domande presso le camere di commercio, ritenute non rientranti in quelle riservate solo a soggetti iscritti in appositi albi o provvisti di specifica abilitazione.
Le attività indicate, infatti, (al di là di ogni altra possibile considerazione) erano comunque svolte nell'esercizio della professione di consulente del lavoro e, quindi, senza l'indotta apparenza di un esercizio facente capo a soggetto abilitato a professione commerciale.
Sugli effetti della sentenza della Corte di cassazione, Sez. unite penali, sent. 23/3/12, n. 11545.
«Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell'art. 348 cod. pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato».
Il principio (rectius, la lettura che talvolta si è voluto dare) ha suscitato particolare clamore.
Si è parlato di pronuncia «pericolosa», di prospettive poco tranquillizzanti per i Consulenti del Lavoro.
In realtà la sentenza n. 11545/2012, che pure opera la affermata estensione della applicazione dell'art. 348 c.p., ha una portata e può ad essa essere riconosciuto un significato obiettivamente ancor più ampio, con ricadute però da leggersi esclusivamente in termini di tutela, tout court, del ruolo e delle funzioni delle professioni regolamentate. Ciò peraltro nell'ambito di un filone giurisprudenziale non sconosciuto alla Corte, non a caso più volte richiamato dalla stessa Corte nell'occasione.
Le Sezioni unite tentano di risolvere il conflitto giurisprudenziale insorto in relazione alla interpretazione dell'art. 348 c.p., che punisce «chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato».
Nel testo sottolineato si rinviene la chiave risolutiva della determinazione dei confini del reato di esercizio abusivo di una professione, e la giustificazione della soluzione adottata dalla Corte con la sentenza de quo, superando la diatriba, talvolta speciosa, tra atti attribuiti in via esclusiva ad una particolare professione, ed atti «relativamente liberi», non attribuibili con la stessa riserva di legge.
La Cassazione conclude nel senso di tutelare in ogni caso dall'esercizio abusivo anche questa ulteriore sottocategoria, quando a compiere tale tipo di atti sia un soggetto abusivo in quanto sprovvisto di qualsivoglia abilitazione legale.
Questa del 23 marzo 2012 è una sentenza comunque complessa, che investe – muovendo dal campo penale – l'alveo civilistico della regolamentazione dei rapporti professionali, con ulteriori distinguo conseguenti ai rilievi connessi a quest'ultimo particolare ambito. È però fondamenta di argini invalicabili talvolta reclamati da una particolare professione rispetto ad altra affine o con adempimenti e compiti comunque contigui, non può essere questa la chiave di lettura – obiettiva – che emerge dalla pronuncia, dalla quale è possibile in realtà ricavare, a conferma della portata del principio espresso nella massima premessa, quanto di seguito.
La questione concreta da cui è scaturita la rimessione del ricorso alle Sezioni unite è «se le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti integrino il reato di esercizio abusivo della professione di ragioniere, perito commerciale o dottore commercialista, se svolte – da chi non sia iscritto al relativo albo professionale – in modo continuativo, organizzato e retribuito».
Essa, peraltro, ne sottende un'altra, di carattere più generale, che attiene all'ambito applicativo della norma dell'art. 348 cod. pen., in riferimento in particolare al contrasto sulla delimitazione o meno di esso ai soli «atti» attribuiti in via esclusiva a una data professione.
La norma incriminatrice dell'art. 348 cod. pen., che punisce chi «abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato», trova la propria ratio nella necessità di tutelare l'Interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, sez. 6, n. 1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698). Il titolare dell'interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, e l'eventuale consenso del privato destinatario della prestazione professionale abusiva non può avere valore scriminante. In buona sostanza, questa la portata che in conclusione può essere assegnata alla sentenza in discorso: ampiezza applicativa dell'art. 348 c.p., ma strettamente destinata a tutelare gli interessi sottesi che lo Stato persegue con la norma medesima contro l'esercizio abusivo dell'attività professionale da parte di chi è privo di qualsiasi tipo di abilitazione. Questi i termini del rilievo penale della fattispecie. E ciò senza che le intenzioni della Corte possano essere malintese nel senso di assegnare loro chiavi di lettura che finiscano per privilegiare una particolare categoria professionale, in relazione ad una determinata tipologia di atti, rispetto ad altra categoria regolamentata e di pari dignità.
In data 23 marzo 2012, è stata depositata la sentenza n. 11545/12 da parte delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione. Tale sentenza è destinata a diventare il caposaldo di qualsivoglia futura interpretazione circa la legittimità della professione del consulente tributario in relazione a quelle del dottore commercialista e dell'esperto contabile. Con riferimento infatti all'esercizio abusivo della professione di cui all'art. 348 c.p., i giudici di legittimità hanno disposto il seguente principio di diritto: «Concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell'art. 348 cod.pen., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti in via esclusiva, siano univocamente individuati come competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato». Le Sezioni Unite penali, dopo avere esaustivamente analizzato la fattispecie di reato in parola e avere richiamato la corposa giurisprudenza della stessa Corte e di quella Costituzionale (viene più volte citata la nota sentenza della Consulta n. 418 del 1996 che espressamente aveva ritenuto l'attività del dottore commercialista e del ragioniere non riservata in via esclusiva), hanno in buona sostanza stabilito che: 1) le materie che la legge attribuisce ai dottori commercialisti e agli esperti contabili non sono riservate loro in via esclusiva, ma sono semplicemente individuate come di competenza specifica; 2) i consulenti tributari possono dunque legittimamente svolgere la professione in maniera continuativa, organizzata e remunerata; 3) considerato però che la professione di dottore commercialista e di esperto contabile è ritenuta protetta dalla legge e sottoposta al controllo dell'Ordine di appartenenza, coloro che svolgono l'attività di consulente tributario (rectius: consulenza aziendale e fiscale, tenuta delle contabilità, redazione dei bilanci, dichiarazioni fiscali ecc.) debbono sempre evidenziare che operano in forza di titoli diversi dall'abilitazione professionale, anche per esperienza personale comunque acquisita. La sentenza, mettendo fine a una vicenda oramai annosa, a ben vedere, fa piazza pulita di tutte le pregresse e strumentali tesi susseguitesi nel tempo, secondo cui i tributaristi avrebbero esercitato la propria attività illecitamente, e vieppiù conferma il diritto di altri liberi professionisti (e dunque in primis dei cosiddetti tributaristi, quali soggetti differenti da quelli abilitati) di occuparsi delle materie contabili. Tuttavia viene messa in rilievo l'esigenza dello stato di tutelare la buona fede dei potenziali clienti, i quali debbono essere informati sull'effettiva qualifica del professionista. Considerata la vicenda di partenza esaminata dalla Corte (l'imputato si spacciava per dottore commercialista, non essendolo) e i principi di tassatività e tipicità che sorreggono l'illecito penale, si può ritenere che l'affidamento del terzo (e dunque l'interesse protetto dallo stato con la disciplina degli Ordini) venga garantito dal momento in cui il professionista non iscritto all'Albo, espliciti di essere consulente tributario magari annotando di essere registrato nell'elenco di un'associazione di categoria e quindi di esercitare in base a titoli diversi dall'abilitazione professionale (per esempio, diploma di ragioniere o perito commerciale). Nella logica delineata dalla Suprema Corte, infatti, può ritenersi opportuno se non addirittura capitale che il tributarista vanti l'appartenenza a un'associazione di categoria, laddove è noto per esempio come l'Ancot - Associazione nazionale consulenti tributari, sia in grado di offrire non solo la necessaria caratterizzazione, onde venisse indicata dal singolo professionista quale proprio soggetto sindacale di riferimento, ma altresì la garanzia di far operare i propri affiliati nella massima correttezza e trasparenza, avendo sempre sposato l'indirizzo di non insinuare mai nella potenziale clientela l'erroneo convincimento di avere fra le sue fila iscritti all'Albo di cui al dlgs 139/05.

Testo sentenza: http://www.cortedicassazione.it/Documenti/11545_03_12.pdf

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